Berlusconi e Vendola

di Lea Melandri

 

Definire “volgari” le battute di Berlusconi, tentare di distinguere le responsabilità legate al suo ruolo istituzionale da comportamenti ritenuti “privati”, e come tali insindacabili, è, nel suo caso specifico, del tutto improprio, per non dire fuorviante. Basterebbe analizzare più a fondo le ultime uscite del premier, quelle che si riferiscono al caso Ruby, ma che mirano come sempre a richiamare plausi e consenso sulla sua figura.

Nei commenti e nel dibattito che vi ha fatto seguito, in televisione e sui giornali, tutti si sono mostrati molto cauti nel giudicare scelte sessuali ritenute private, e quindi suscettibili tutt’al più di riprovazione morale o censura ideologica, salvo a intervenire invece con forza sull’abuso di potere.
 
C’è un’osservazione che viene immediata: come si può ragionare in termini di privato e pubblico di fronte a un  personaggio anomalo come Berlusconi, che ha incarnato fin dalla sua “discesa in campo” la privatizzazione più smaccata della politica, facendola coincidere con l’epopea della sua immagine di figlio, marito, padre e imprenditore di successo?

Era chiaro, da quell’esordio calibrato sull’onda di un narcisismo onnipotente, che il privato sarebbe divenuto l’arma più efficace, più persuasiva, per farsi benvolere da quella parte consistente di “popolo” che consuma la propria vita entro la cerchia ristretta dei legami famigliari, e che finisce per confondere le istituzioni con i raggiri di politici corrotti. Non è necessario aver letto Le Bon, la sua Psicologia delle folle, o i saggi di Freud sulla vita psichica delle masse, per sapere che i rapporti più irrazionali e inconsapevoli si strutturano su fenomeni di identificazione, simili all’ipnosi e all’innamoramento.
Più la gente si sente perduta e impotente, più è spinta a trovare fuori di sé un Io ideale, capace di rispecchiare la sua quotidianità  -il suo linguaggio, i suoi sogni, le sue abitudini, i suoi buoni e cattivi impulsi-, e di sollevarla al medesimo tempo al livello massimo del potere, della perfezione e della magnificenza. Che cosa c’è di più esaltante, per una massa in adorazione, che ascoltare da una delle più alte cariche dello Stato le parole di un sentire comune, sedimentato da secoli di dominio maschile, e che molte donne continuano a considerare lusinghiere anche per se stesse?

Il diritto del “guerriero” a cercare il suo “riposo” accanto a giovani bellezze femminili, l’amore per la vita collocato nel piacere sessuale, la difesa della virilità eretta come baluardo contro il pericolo dell’effeminatezza: non sono queste le convinzioni più diffuse, che solo in tempi abbastanza recenti hanno cominciato a essere scosse dalla presa di coscienza e dall’azione politica di movimenti presenti nelle piazze italiane a più riprese, ma ignorati dal nostro parlamento e dai partiti che dovrebbero rappresentarli?

Non sono così sicura, come sembra essere Nichi Vendola nella sua lettera pubblica al Presidente del Consiglio, che un paese “stremato, impoverito, precarizzato” abbia perduto l’abitudine inveterata a ridere del suo umorismo da osteria, della sua virilità di facciata, delle sue galanterie da cacciatore o protettore di femmine.
Forse dovremmo chiederci perché quelli a cui “mette tristezza” o indignazione in Italia contano ancora così poco, perché si continua a controbattere gli insulti  -agli ebrei, alle donne, agli omosessuali-, invocando la Costituzione, articoli di legge, provvedimenti giudiziari, senza mai portare allo scoperto e fare oggetto di analisi le logiche di potere che si celano nel senso comune, nella violenza sessista e razzista di cui sono improntate la quotidianità e i legami più intimi, senza dire con chiarezza che le radici della politica affondano nella sfera personale, là dove ancora si pensa di vedere agire una “natura” immobile, salvifica o irrimediabilmente stupida.

La denuncia dell’omofobia e del maschilismo, a cui si ispirano le sempre più frequenti battute del premier, non può restare il richiamo alla responsabilità del suo ruolo istituzionale, e neppure si può pensare di usarla solo come arma per far cadere un governo che sta producendo effetti devastanti. Nel contrapporre il suo entourage di belle ragazze alla frequentazione di gay, non è difficile cogliere una frecciata indiretta all’ombra inquietante di un contro leader, quale sembra essere Nichi Vendola. E, in effetti, su un piano totalmente opposto, che è quello di una raffinata cultura politica, intrisa dei tratti più alti del sentimento, del sogno, della creatività intellettuale e poetica, Nichi può essere l’antiberlusconi, attrarre a sé quel “popolo” che vorrebbe “pulizia, verità, serenità”.

Ma è questo ciò di cui abbiamo bisogno per uscire dalla spaccatura profonda che si è creata nel nostro paese, tra una cultura che ha maturato consapevolezze e comportamenti nuovi  -riguardo al rapporto tra i sessi, ma anche tra popoli e orientamenti sessuali diversi, tra logiche proprietarie e beni comuni-, e una cultura divenuta habitus mentale, ideologia portante di tutte le istituzioni e i linguaggi della vita sociale? Nichi Vendola ha passione, intelligenza e serietà per diventare quella “guida poetica e morale” che avrebbe voluto vedere in Berlusconi. Ma il carisma, che potrebbe spostare su di lui attese salvifiche non meno invischianti di quelle che hanno decretato il trionfo del Presidente del Consiglio, si porta dietro il rischio di un nuovo populismo, sicuramente più sano ma non per questo meno gregario.

Nella privatizzazione travolgente, incontrollata, che ha subìto la vita pubblica, hanno avuto sicuramente un peso non indifferente il mercato, il consumismo, la produzione fine a se stessa di beni di consumo inutili. Ma non va sottovalutato il vuoto di nuovi modelli, nuovi linguaggi, nuove forme dell’agire politico e della convivenza, prodotto dalla messa sotto silenzio di una generazione di donne e uomini a cui si deve la rivoluzione culturale degli anni ’70, una storia che ancora fermenta nella molteplicità dei movimenti, dei gruppi, delle associazioni, dell’impegno dei singoli, e a cui non viene dato né riconoscimento né parola nei luoghi dove più visibilmente circolano opinioni e idee.
Per sviluppare sapere, partecipazione e forza collettiva è necessario sottrarre alla dimenticanza o al rifiuto una storia che molti e molte hanno condiviso e altri ereditato e fatta propria, sia pure inconsapevolmente.
Nella fretta di trovare una personalità “intera”, capace di tenere insieme vita e politica, sentimenti e ragione, utopia e pragmatismo, non vorrei che si finisse ancora una volta per integrare tutto ciò che è stato identificato col “femminile” e far cadere un silenzio ancora più pesante sulle donne e gli uomini reali.

15-11-2010

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